Seduto sul cesso senz'asse nel retro della cella, ero intento a lucidare le orribili scarpe dalla punta bulbiforme che venivano fornite a chi stava per uscire. Mi attraversò la mente un canto di trionfo: "Domattina sarò un uomo libero". Ma nonostante l'esultanza, la gioia di uscire dopo otto calendari sfogliati in prigione era tutt'altro che sfrenata. La lucidatura delle orrende scarpe non era tanto tesa a migliorare il loro aspetto, quanto ad alleviare la mia tensione.
(Edizione Einaudi Tascabili Stile Libero - traduzione di Stefano Bortolussi)
Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell'aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l'intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine. Neanche un bambino nei giardini. Ombre e luce sulle zoysie ingiallite. Querce rosse e querce di palude e querce bicolori riversavano una pioggia di ghiande sulle case senza ipoteca. Le controfinestre rabbrividivano nelle stanze da letto vuote. E poi il ronzio monotono e singhiozzante di un'asciugabiancheria, la contesa nasale di un soffiatore da giardino, il maturare di mele nostrane in un sacchetto di carta, l'odore della benzina con cui Alfred Lambert aveva ripulito il pennello dopo la verniciatura mattutina del divanetto di vimini.
Le tre del pomeriggio erano un'ora pericolosa nei sobborghi gerontocratici di St. Jude. Alfred si era svegliato nella grande poltrona blu in cui di era addormentato dopo il pranzo. Aveva finito il suo pisolino e il prossimo notiziario locale iniziava soltanto alle cinque. Due ore vuote erano una fistola che generava infezioni. Si alzò a fatica, raggiunse il tavolo da ping pong e si mise in ascolto di Enid, ma non la sentì.
(Edizioni Einaudi - traduzione di Silvia Pareschi)
Era un venerdì pomeriggio perfettamente normale nella Panama dei tropici, fino al momento in cui Andrew Osnard piombò nella sartoria di Harry Pendel chiedendo che gli prendessero le misure per un abito. Prima di questa irruzione, Pendel era una persona. Dopo che Osnard fu uscito, Pendel era un'altra persona. Tempo trascorso: settantasette minuti, secondo la pendola di mogano di Samuel Collier di Eccles, una delle molte attrattive storiche della ditta Pendel & Braithwaite Co., Limitada, Sarti della Casa Reale, un tempo ubicata in Savile Row, a Londra, e attualmente in Vía España, Panama City.
O da quelle parti. Tanto vicina alla España che non c'era nessuna differenza. E per brevità P & B.
(Edizioni Feltrinelli - traduzione di Luigi Schenoni)
Era l'ultima lite, almeno questo era chiaro. Ma benché l'avesse presentita da giorni e forse da settimane, nulla poteva placare l'ondata di rabbia e risentimento che gli stava montando dentro. Era lei dalla parte del torto, e s'era rifiutata d'ammetterlo. Ogni argomento che lui aveva provato a opporre, ogni suo tentativo di mostrarsi conciliante e ragionevole gli era stato distorto, contorto e ribaltato contro.
(Edizione Universale Economica Feltrinelli - traduzione di Domenico Scarpa)
Maggio ad Ayemenem è un mese caldo, meditabondo. Le giornate sono lunghe e umide. Il fiume si ritira e corvi neri si rimpinzano di manghi lucidi sugli alberi verdepolvere, immobili. Maturano le banane rosse. Si spaccano i frutti dell'albero del pane. Mosconi viziosi ronzano vacui nell'aria fruttata. Poi si schiantano contro i vetri delle finestre e muoiono, goffamente inermi sotto il sole.
Le notti sono limpide, ma soffuse di un'attesa fosca e pigra.
Sarebbe la storia di un dittatore agorafobico. Poco importa il paese. Basta immaginare una di quelle repubbliche delle banane con il sottosuolo abbastanza ricco perché si desideri prendervi il potere e abbastanza aride in superficie per essere fertili di rivoluzioni. Mettiamo che la capitale si chiami Teresina, come la capitale del Piauí, in Brasile. Il Piauí è uno stato troppo povero per poter mai servire da cornice a una favola sul potere, ma Teresina è un nome accettabile per una capitale.
E Manuel Pereira da Ponte Martins sarebbe un nome plausibile per un dittatore.
Sarebbe quindi la storia di Manuel Pereira da Ponte Martins, dittatore agorafobico. Pereira e Martins sono i due cognomi più diffusi nel suo paese. Da ciò la sua vocazione di dittatore; quando ti chiami due volte come tutti, il potere ti spetta di diritto. È quello che lui si dice da quando ha l'età per pensare.
(Edizioni Feltrinelli - traduzione di Yasmina Melaouah)
3 aprile
Myriam,
tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi. A dire il vero ho cercato di non scrivere, sono già due giorni che ci provo, ma adesso mi sono arreso.
Ti ho vista l'altro ieri al raduno del liceo. Tu non mi hai notato, stavo in disparte, forse non potevi vedermi. Qualcuno ha pronunciato il tuo nome e alcuni ragazzi ti hanno chiamata "professoressa". Eri con un uomo alto, probabilmente tuo marito. È tutto quello che so di te, ed è forse già troppo. Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me.
(Edizioni Oscar Mondadori - traduzione di Alessandra Shomroni)
Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che ormai il vecchio era decisamente e definitivamente salao, che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un'altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all'albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand'era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.
Sono rimasto molto colpito dall'autobiografia di Mary Karr, The Liars' Club. Non solo per la sua ferocia, la sua bellezza e la deliziosa padronanza del linguaggio vernacolare dell'autrice, ma per la sua totalità. Mary è una donna che dei suoi primi anni di vita ricorda tutto.
Io non sono così. Ho vissuto un'infanzia anomala, convulsa, cresciuto da una madre single che durante i miei primi anni condusse un'esistenza nomade e che (ma di questo non sono del tutto sicuro) affidò per un po' me e mio fratello a una zia perché era, in quel periodo, economicamente o emotivamente incapace di accudirci. Forse stava solo inseguendo mio padre, che accumulò una montagna di conti in sospeso e prese il largo quando io avevo due anni e mio fratello David quattro. Se così fu, le sue ricerche non ebbero successo. Mia madre, Nellie Ruth Pillsbury King, fu una delle prime donne statunitensi liberate, ma non per sua scelta.
Mary Karr dipinge la sua infanzia in un panorama quasi ininterrotto. Il mio è un paesaggio nebbioso nel quale i ricordi appaiono qua e là come alberi isolati... di quelli che hanno l'aria di volerti ghermire e divorare.
Ho raccolto qui alcuni di quei ricordi, insieme con istantanee assortite dei giorni un po' più coerenti della mia adolescenza e prima maturità. Questa non è un'autobiografia. È caso mai una specie di curriculum vitae, il mio tentativo di spiegare come si è formato uno scrittore. Non come uno scrittore è stato formato; io non credo che gli scrittori possano ricevere una formazione, né dalle circostanze, né per propria volontà (anche se così ho creduto in passato). L'attrezzatura è compresa nella confezione originale. Ma non stiamo parlando di accessori inusuali; io credo che siano molti ad avere, se pur in forma germinale, talento di scrittore e narratore, e che questo talento possa essere rafforzato e affinato. Se non ne fossi convinto, scrivere un libro come questo sarebbe una perdita di tempo.
Così è stato per me, né più né meno, un processo di crescita disarticolato nel quale hanno agito in varia misura ambizione, desiderio, fortuna e un briciolo di talento. Non sforzatevi di leggere tra le righe e non cercate un filo conduttore. Non ci sono fili, solo istantanee, in gran parte sfocate.
(Edizione Sperling & Kupfer - traduzione di Tullio Dobner)
Mister Brother si fa la barba per uscire. Ha un appuntamento. A Mister Brother piace prepararsi, e gli piace aver fatto sesso. Tutto quello che ci sta in mezzo è solo ordinaria amministrazione.
"Ehi Mezzasega," dice. "Vacci piano stasera sulle lenzuola, la mamma ha finito la candeggina."
Mezzasega (che saresti tu, se ti va di calarti nei suoi panni per un po') dice: "Sta zitto, scemo."
"Ehi," dice Mister Brother, passandosi con fare esperto il rasoio usa e getta sulla guancia. "Non chiamarmi scemo, lo sai quanto mi dà sui nervi."
(Edizioni Bompiani - Traduzione di Rossella Bernascone, Ivan Cotroneo, Il Seminario Internazionale del Collegio dei Traduttori Grinzane Cavour)
Soli, lo si è in una casa. Non fuori, ma dentro di essa. Nel parco ci sono gli uccellini, i gatti e una volta anche uno scoiattolo, un furetto. Non si è soli in un parco. Invece in casa si è tanto soli da sentirsi talvolta smarriti. Ora so di esserci rimasta dieci anni per scrivere libri che mi hanno fatto sapere, a me e agli altri, che ero lo scrittore che sono.
(Edizione Feltrinelli - traduzione di Leonella Prato Caruso)
I sette messaggeri
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all'estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
In un borgo della Mancia, che non voglio ricordarmi come si chiama, viveva non è gran tempo un nobiluomo di quelli che hanno e lancia nella rastrelliera e un vecchio scudo, un magro ronzino e un levriere da caccia. Un piatto di qualcosa, più vacca che castrato, brincelli di carne in insalata, il più delle sere, frittata in zoccoli e zampetti il sabato, lenticchie il venerdì, un po' di piccioncino per soprappiù la domenica, esaurivano i tre quarti dei suoi averi. Al resto davano fine la zimarra di castorino, i calzoni di velluto per le feste con le corrispondenti controscarpe pur di velluto. Nei giorni fra settimana poi gli piaceva vestire d'orbace del più fino.
Ecco, per stilare una classifica, le cinque più memorabili fregature di tutti i tempi, in ordine cronologico:
1) Alison Ashworth
2) Penny Hardwick
3) Jackie Allen
4) Charlie Nicholson
5) Sarah Kendrew
Ecco quelle che mi hanno ferito davvero. Ci vedi forse il tuo nome lì in mezzo, Laura? Ammetto che rientreresti tra le prime dieci, ma no c'è spazio per te tra le prime cinque; sono posti destinati a quel genere di umiliazioni e di strazi che tu semplicemente non sei in grado di appioppare.
Questo forse suona più cattivo di quanto vorrei, ma il fatto è che noi siamo troppo cresciuti per rovinarci la vita a vicenda, e questo è un bene, non un male, per cui se non sei in classifica, non prenderla sul piano personale.
Quei tempi sono passati, e che liberazione, cazzo; l'infelicità significava davvero qualcosa, allora. Adesso è solo una seccatura, un pò come avere il raffreddore o essere al verde. Se volevi veramente incasinarmi, dovevi arrivare prima.
Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della BMW, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. E' proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai.
Quando l'aereo ebbe completato l'atterraggio, la scritta "Vieteto fumare" si spense e dagli altoparlanti cominciò a diffondersi a basso volume una musica di sottofondo. Era Norwegian Wood dei Beatles in una annacquata versione orchestrale. E come sempre mi bastò riconoscerne la melodia per sentirmi turbato. Anzi, questa volta ne fui agitato e sconvolto come non mi era mai accaduto.
(Edizione Universale Economica Feltrinelli - traduzione di Giorgio Amitrano)
Ero al volante di una Chevrolet Nova 370 del '69, quattro cilindri con cerchi in lega e doppio tubo di scappamento. È una macchina coi controcoglioni. Le ho tolto la marmitta, e adesso romba come una Harley. La gente la adora. Mi stavo guardando dal finestrino nello specchietto sul lato del guidatore; lo faccio in continuazione. Guardo dentro qualunque superficie che rifletta. Non è una dote di cui andare fiero, e vorrei essere capace di evitarlo, ma è più forte di me. Sono vanesio come un pavone. È disgustoso. Il più delle volte quando mi guardo allo specchio lo faccio per controllare se ci sono ancora; oppure immagino di essere qualcun altro, un bandito messicano o roba del genere. Perché ho i baffi. Quasi tutti gli uomini coi baffi sembrano un po' froci, ma io no. Però me li tocco troppo. Sto sempre a toccarmeli. Non so neanche perché vi sto raccontando questo, adesso. È che mi guardo in continuazione allo specchio e vorrei evitarlo. Non mi dà assolutamente nessun piacere.
Avevo le dita congelate intorno al volante. Albany a febbraio è un'unica lastra di ghiaccio, nera e fuligginosa. La voce di donna alla radio annunciò l'ora e la temperatura: le otto e quarantadue, meno cinque gradi. Io e Christy avevamo rotto quindici ore prima ed ero in tilt. Avevo indosso la mia uniforme, quella di gala; è fantastica. Le divise militari ti fanno sentire qualcuno, ti fanno sentire di avere uno scopo, anche se non ce l'hai. Ti senti speciale, parte della tradizione. Non sei una persona qualunque, un civile: sei nobile. Ma tutto questo orgoglio ha un rovescio della medaglia: sono soltanto balle.
Questa è la mia storia.
(Edizioni Minimum Fax - Traduzione di Martina Testa)
Erano circa le 5 di una mattina d'inverno, in Siria. Lungo il marciapiede della stazione d'Aleppo era già formato il treno che gli orari ferroviari internazionali indicavano pomposamente col nome di Taurus Express, e che consisteva in due vetture ordinarie, un vagone-letto e un vagone-ristorante con annesso cucinino.
Vicino alla scaletta di uno degli sportelli del vagone-letto, un giovane tenente francese, splendido nella sua uniforme, conversava con un omino imbacuccato fino alle orecchie e del quale erano visibili solo il naso arrossato e le punte di un paio di baffi arricciati all'insù.
Dalla prima regione di liquida oscurità, nella seconda regione di aria e di luce, ho redatto le seguenti note con il loro misto di fatti e di verità con lo sguardo sempre fisso alla Terza Regione, dove il punto di partenza è il mito.
(Edizione Einaudi Tascabili - traduzione di Lidia Conetti Zazo)
Si affretta, via di casa, indosso ha un cappotto troppo pesante per il clima. È il 1941. È scoppiata una nuova guerra. Ha lasciato un biglietto per Leonard, e un altro per Vanessa. Cammina con determinazione verso il fiume, sicura di quello che farà, ma anche in questo momento è quasi distratta dalla vista delle colline, della chiesa e di un gregge sparso di pecore, incandescente, tinto di una debole traccia di zolfo, che pascola sotto un cielo che si fa più scuro. Si ferma, osserva le pecore e il cielo, poi riprende a camminare.
Titolo originale: The hours (1998)
(Edizioni Tascabili Bompiani - traduzione di Ivan Cotroneo)
Questa è una bellissima biblioteca, molto fornita, molto americana, e l'ora è perfetta. È mezzanotte. La biblioteca dorme profondamente. Come un bimbo che sogna, la porto dentro l'oscurità di queste pagine. Adesso la biblioteca è "chiusa", ma io non devo tornare a casa, perché è questa la mia casa, da anni. Del resto, devo stare sempre qui. Rientra nelle mie mansioni. Non vorrei darmi il tono d'un piccolo burocrate, però mi spaventa solo l'idea che possa venire qualcuno e non trovarmi.
Da ore siedo a questa scrivania, a fissare gli scaffali in penombra, zeppi di libri. Amo la loro presenza, il modo in cui fanno onore al legno su cui posano. Sta per piovere, lo so.
Le nubi hanno giocato col sereno del cielo tutto il giorno, alla fine si sono insediate, con i loro plumbei tabarri, ma finora niente pioggia.
Ho "chiuso" la biblioteca alle nove. Ma se arriva qualcuno con un libro, basta che tiri il cordone della campanella, per distogliermi da qualsiasi altra attività: che dorma o cucini, che mangi o faccia l'amore con Vida. Vida sarà qui a momenti.
Stacca dal lavoro alle undici e mezzo.
(Edizione MARCOS Y MARCOS - Traduzione di Pier Francesco Paolini)
Barrabás arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l'abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant'anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabás era Giovedí Santo.
(Edizione: Universale Economica Feltrinelli - traduzione di Angelo Morino e Sonia Piloto di Castri)
La sera d'estate era calda e immobile. Deserto il molo di cemento e nell'aria file di lampadine, rosse, bianche, gialle, che ardevano come insetti sopra il deserto di legname. Lungo tutta la linea dei baracconi, i gestori se ne stavano imbambolati come manichini di cera un po' sfatta. Due clienti erano transitati un'ora prima. Adesso quei due solitari, sull'ottovolante, circuitavano un vuoto dopo l'altro strillando come scannati a ogni tuffo nel barbaglio notturno. Aimee si mosse, attraversò lentamente la corsia, con alcuni anelli da lancio di legno consunto incollati alle mani sudate, e sostò dietro alla biglietteria che fronteggiava la Casa degli Specchi. Si vide, grottescamente deformata, nei tre specchi ondulati all'esterno del labirinto e in mille stanche copie di se stessa che si perdevano nel restrostante corridoio, immagini calde in tutta quella limpida freddezza.
(Edizione Mondadori - traduzione di Renato Prinzhofer)
Il 2 gennaio 1942 portava buone notizie e cattive notizie.
Prima le buone: scoprii di essere classificato 4F e che non sarei andato in guerra a fare il soldatino. Non mi sentivo affatto poco patriottico perché la mia Seconda guerra mondiale me l'ero già fatta cinque anni prima in Spagna e per provarlo avevo due buchi di pallottola sul culo.
Vai a capire perché sono stato colpito al culo.
A ogni modo era una pidocchiosa storia di guerra. La gente non ti guarda come un eroe quando gli dici che sei stato colpito al culo.
(Edizione MARCOS Y MARCOS - traduzione di Pietro Grossi)