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[mercoledì 30 aprile 2008]
Crepuscolo degli dei fuori catalogo
È un peccato che libri come crepuscolo degli dei di Enzo Biagi non siano più ristampati.
Guardare l'inferno attraverso gli occhi di chi ha dato fuoco alle polveri e di chi ci è stato gettato dentro, condannato, smuove qualcosa dentro, anche a quaranta, cento, mille anni di distanza. Mi sta bene tutto il gran parlare che si fa circa l'importanza di preservare la memoria - anche perché, nonostante il megarchivio di marasmatico nozionismo che è internet, mi pare si stiano attraversando tempi di memoria "usa e getta", nel senso che si ricorda solo ciò che fa comodo e tutto il resto finisce chissà dove - ma si dovrebbe anche agire per tenere a galla i mezzi che di questa memoria sono custodi e promulgatori.
Comunque sia, visto che mi sono lanciata nelle trascrizioni, riporto di seguito la nota alla quarta edizione del libro (1975) e l'introduzione all'edizione originale (1961), entrambe dello stesso Biagi.


NOTA ALL'EDIZIONE BUR


Questa della BUR è la quarta edizione di un libro fortunato. Non ci sono aggiunte né modifiche. Il testo vuole essere il documento di un viaggio in un paese che ancora cercava di cancellare i segni della guerra e meditava sui suoi errori. La parola Germania, allora, sottintendeva anche un giudizio morale.
Io ero affascinato da quel tanto di poetico e di demoniaco che c'è sempre nella vicenda dei tedeschi: le favole dei Grimm e il canto dei canarini dell'Harz, Goethe e Guglielmo II, Wiechert e Hitler, la voce torbida di Zarah Leander e le prime V-1 cavalcate dall'aviatrice Hanna Reitsch.
Cercavo le testimonianze di un passato crudele, tentando di capire che mondo sarebbe nato a Berlino, attorno alle macerie nere della Unter den Linden, o alla collinetta di terra rimossa che copriva la Cancelleria del Terzo Reich.
Molte delle persone che incontrai se ne sono andate, e tanti fatti appaiono lontani, ma forse non è del tutto inutile ritrovare, sia pure attraverso le note di un giornalista, qualcosa di quel clima incerto e allucinato, che l'orgoglio e la potenza economica della DDR e della Bundesrepublik hanno spazzato via. In quei giorni, mi pare, il marco era più debole, ma lo spirito e la speranza apparivano più forti. Dall'aprile del 1945, quando un soldato dell'Armata Rossa issò un drappo con la falce e il martello sulla porta di Brandeburgo, sono passati appena trent'anni: mi farebbe piacere che i giovani sapessero e ricordassero.
E.B.

gennaio 1975



Brevemente dormiamo,
ahimè, fra guerra e guerra!

Heinz Piontek




INTRODUZIONE


Questo è il libro di un giornalista. L'ho scritto in una stanza dell'"Hotel am Zoo", durante una delle tante crisi di Berlino: ricordo una lunga conversazione con Alfred Andersch, l'autore di Zanzibar; diceva che l'anticonformismo di Der Spiegel è apparente, la spregiudicata rivista critica i nostalgici dei vecchi miti, ma stronca i romanzieri di sinistra.
L'ho scritto in una locanda sul Mare del Nord. Si chiamava Zur Oase, "all'oasi"; Frau Margot, la padrona, mi parlava della "Gasthaus" che aveva una volta nella sua terra di Prussia, accanto al castello di un principe: ospitava i cacciatori che inseguivano i caprioli, o andavano nella valle ad aspettare il passo del gallo cedrone. Frau Margot piangeva su una perduta osteria, e una perduta felicità.
L'ho scritto in una birreria di Monaco, fra austeri funzionari travestiti da diavoli, banchieri in parrucca, col naso finto, che allegria, quanta musica: "Chi sa cosa pensano," diceva un collega "quando sono soli, chi sa cosa hanno dentro".
Sono pagine nate da incontri, perché io andavo a cercare delle storie e degli uomini: volevo trovare, soprattutto, l'uomo tedesco, vedere cosa è rimasto del suo orgoglio, quale segno si avverte ancora delle sue sconfitte. Ho scoperto una grande solitudine. L'antefatto, e lo svolgimento del dramma che racconto, sono a tutti noti, ma la conclusione è ancora lontana. Le parole non bastano, forse, a narrare l'intrico dei sentimenti, anche perché molte emozioni restano nascoste.
Dedico questo racconto a un soldato della "Wehrmacht": si chiamava Albert, era sergente di fanteria, non ricordo il suo cognome, ho in mente che era nato nella Lorena, non so se è vivo, come finì per lui la folle avventura. Lo conobbi in un villaggio dell'Appennino tosco-emiliano: parlavamo di tante cose, e anche della guerra. Non amava Hitler, ma credeva che, alla fine, la Germania avrebbe vinto. Ubbidiva. Durante un rastrellamento finii fra le braccia di un tenente delle SS. Cercavano gente per la Todt, per portare munizioni in linea, per mandarla a lavorare nelle fabbriche tedesche. Molti non tornarono. Albert di presentò all'ufficiale e disse, offendendo la verità e la lingua della sua patria: "Er ist unser Dolmetscher," è il nostro interprete. Mi lasciarono andare.
Non ho più visto Albert; questo è il solo modo che mi rimane per dirgli grazie.

Enzo Biagi



[Ardesia | 53]

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