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[venerdì 18 aprile 2008]
Per fortuna, ci sono libri che non sono di chi li scrive ma di chi li soffre *

Per anestetizzare una botta di nervoso di proporzioni apocalittiche ho trascritto tutta l'introduzione di Gabriel Garcia Márquez a Racconto di un naufrago.
Sarà che mi stavo sententendo naufragare un po' anch'io.

Il titolo del post è tratto dalla suddetta introduzione.
La suddetta introduzione è incollata qui di seguito, quindi oltre ad essere suddetta è anche sottostante.
Visto che mi sento ancora un pochetto sottosopra tutto ciò mi sembra molto appropriato.


La storia di questa storia

Il 28 febbraio del 1955 si diffuse la notizia che otto membri dell'equipaggio del cacciatorpediniere "Caldas", della marina militare della Colombia, erano caduti in mare e vi erano scomparsi a causa di una tempesta nel mar dei Caraibi. La nave viaggiava da Mobile, negli Stati Uniti, dove aveva subito delle riparazioni, verso il porto colombiano di Cartagena, dove arrivò senza ritardo due ore dopo la tragedia. La ricerca dei naufraghi ebbe inizio immediatamente, con la collaborazione delle forze nordamericane del canale di Panama, che svolgono funzioni di controllo militare e altre opere di carità nel Sud dei Caraibi. Dopo quattro giorni le ricerche furono interrotte, e i marinai dispersi vennero dichiarati ufficialmente morti. Una settimana dopo, però, uno di loro fu ritrovato moribondo su una spiaggia deserta del Nord della Colombia, dopo che era rimasto dieci giorni senza né mangiare né bere in una zattera alla deriva. Si chiamava Luis Alejandro Velasco. Questo libro è la ricostruzione giornalistica di quanto lui mi raccontò, così come fu pubblicata un mese dopo la sciagura sul quotidiano «El Espectator» di Bogotá.
Ciò che né il naufrago né io sapevamo mentre cercavamo di ricostruire minuto per minuto la sua avventura, era che quell'estenuante operazione ci avrebbe condotti a una nuova avventura che provocò un certo subbuglio nel paese, che a lui costò la gloria e la carriera e che a me avrebbe potuto costare la pelle.
La Colombia era allora sotto la dittatura militare e folcloristica del generale Gustavo Rojas Pinilla, le cui due imprese più memorabili furono una carneficina di studenti nel centro della capitale quando l'esercito disperse con le armi una manifestazione pacifica, e l'assassinio da parte della polizia segreta di un numero mai accertato di spettatori di corride domenicali, che nell'arena avevano fischiato la figlia del dittatore. La stampa era sotto censura, e il problema quotidiano dei giornali dell'opposizione era trovare argomenti non inquinati dalla politica per intrattenere i lettori. All'«Espectator», incaricati di questo onorevole lavoro da cucinieri eravamo Guillermo Cano, direttore, José Salgar, redattore capo, e io che facevo il cronista. Nessuno di noi aveva più di trent'anni.
Quando Luis Alejandro Velasco venne di propria iniziativa a chiederci quanto gli avremmo pagato la sua storia, la prendemmo per quel che era: una notizia rifritta. Le forze armate lo avevano tenuto sequestrato per diverse settimane in un ospedale marittimo, e aveva potuto parlare soltanto con i giornalisti del regime, e con uno dell'opposizione che si era travestito da medico. La storia era stata raccontata più volte a pezzi e bocconi, era ormai rimestata e stravolta, e i lettori sembravano stufi di un eroe che si vendeva per fare la pubblicità agli orologi, perché il suo non era andato indietro malgrado le intemperie, che compariva nella réclame di certe scarpe, perché le sue erano così forti che non le aveva potute fare a pezzi per mangiarsele, e in molte altre porcherie pubblicitarie. Era stato decorato, aveva fatto discorsi patriottici per radio, lo avevano mostrato alla televisione come esempio per le generazioni future, lo avevano portato a spasso per mezzo paese tra musiche e fiori a fargli firmare autografi e a farlo baciare dalle reginette di bellezza. Aveva messo insieme una piccola fortuna. Se veniva da noi senza che lo avessimo chiamato, dopo essere stato cercato tanto, era chiaro che non aveva più molto da raccontare, che sarebbe stato capace di inventare qualsiasi cosa per quattro soldi, e che il governo gli aveva precisato con molta esattezza i limiti delle sue eventuali dichiarazioni. Lo rispedimmo via. Improvvisamente, colto da un presentimento, Guillermo Cano lo rincorse per le scale, accettò l'affare, e lo mise nelle mie mani. Fu come se mi avesse dato una bomba a orologeria.
La mia prima sorpresa fu che quel ragazzo di vent'anni, tarchiato, con una faccia più da trombettiere che da eroe della patria, aveva un istinto eccezionale nell'arte di raccontare, una capacità di sintesi e una memoria stupefacenti, e abbastanza dignità selvatica da saper sorridere del proprio eroismo. In venti sedute di sei ore al giorno, nel corso delle quali io prendevo appunti e me ne venivo fuori con domande a trabocchetto per coglierlo in contraddizione, riuscimmo a ricostruire il racconto compatto e veritiero dei suoi dieci giorni in mare. Era talmente minuzioso e appassionante che il mio unico problema letterario sarebbe stato di fare in modo che il lettore lo prendesse sul serio. Non solo per questo, ma anche perché ci pareva giusto, ci mettemmo d'accordo per scriverlo in prima persona, firmato da lui. In effetti questa è la prima volta che il mio nome compare legato a questo testo.
La seconda sorpresa, e fu la più bella, l'ebbi al quarto giorno di lavoro, quando chiesi a Luis Alejandro Velasco di descrivermi la tempesta che aveva provocato il disastro. Consapevole che la dichiarazione valeva tanto oro quanto pesava, mi rispose con un sorriso: «Non c'era nessuna tempesta». E così stavano le cose: i servizi meteorologici ci confermarono che quello era stato uno dei tanti febbrai mansueti e diafani dei Caraibi. La verità, mai resa pubblica fino allora, era che la nave aveva preso una sbandata per via del vento con il mare grosso, il carico male assicurato in coperta si era slegato, e gli otto marinai erano finiti in mare. La rivelazione denunciava tre infrazioni enormi: primo, era proibito trasportare carichi su un cacciatorpediniere; secondo, era stato a causa del soprappeso che la nave non aveva potuto manovrare per recuperare i naufraghi; e terzo, il carico era di contrabbando: frigoriferi, televisori, lavatrici. Era evidente che il racconto, come il cacciatorpediniere, trasportava anch'esso, male assicurato, un carico politico e morale di accuse che non avevamo previsto.
La storia, divisa in puntate, fu pubblicata in quattordici giorni consecutivi. Lo stesso governo applaudì in principio la consacrazione letteraria del suo eroe. Poi, quando venne fuori la verità, sarebbe stata una sconsideratezza politica impedire la continuazione della serie: la diffusione del quotidiano si era quasi raddoppiata e c'era davanti al palazzo una ressa di persone che faceva a gara per comprare i numeri arretrati in modo da poter possedere la collezione completa. La dittatura, seguendo una tradizione molto peculiare dei governi colombiani, si rassegnò a rattoppare la verità con la retorica: smentì con un comunicato solenne che il cacciatorpediniere trasportasse merce di contrabbando. Cercando il modo di sostenere le nostre accuse, chiedemmo a Luis Alejandro Velasco un elenco dei suoi compagni di equipaggio che possedevano macchine fotografiche. Anche se molti erano in vacanza in diverse parti del paese, riuscimmo a scovarli per comprare le foto che avevano scattato durante il viaggio. Una settima dopo che era stato pubblicato a puntate, il racconto apparve completo in un supplemento speciale, illustrato con le foto comprate ai marinai. Sullo sfondo dei gruppi di amici in alto mare, si vedevano senza la minima possibilità di equivoco, persino con i marchi di fabbrica, le casse di merce di contrabbando. La dittatura accusò il colpo con una serie di drastiche rappresaglie che sarebbero culminate, qualche mese dopo, con la chiusura del giornale.
Malgrado le pressioni, le minacce e i più seducenti tentativi di corruzione, Luis Alejandro Velasco non si rimangiò una riga del racconto. Dovette abbandonare la marina, che era l'unico lavoro che sapeva fare, e franò nell'oblio della vita comune. Neanche due anni dopo cadde la dittatura e la Colombia finì nelle mani di altri regimi meglio vestiti ma non molto più giusti, mentre io iniziavo a Parigi questo esilio errante e un poco nostalgico che somiglia tanto anch'esso a una zattera alla deriva. Nessuno seppe più nulla del naufrago solitario, fino a quando pochi mesi fa un giornalista sperduto lo riconobbe dietro la scrivania di un'impresa d'autobus. Ho visto la foto: è cresciuto di peso e di età, e si vede bene che la vita lo ha attraversato da parte a parte, ma gli ha lasciato l'aura serena dell'eroe che ebbe il coraggio di far saltare in aria la propria statua.
Era da quindici anni che non rileggevo questo racconto. Mi sembra abbastanza degno d'esser pubblicato, anche se non riesco a capire l'utilità di una sua pubblicazione. Se lo si stampa ora sotto forma di libro è perché ho detto di sì senza rifletterci bene, e io sono un uomo che ha una sola parola. Mi deprime l'idea che agli editori non interessino tanto i meriti del testo quanto il nome con cui è firmato, nome che mio malgrado è quello di uno scrittore di moda. Per fortuna, ci sono libri che non sono di chi li scrive ma di chi li soffre, e questo è uno. I diritti d'autore, di conseguenza, andranno a chi li merita: al compatriota anonimo che dovette soffrire per dieci giorni senza né bere né mangiare in una zattera perché questo libro fosse possibile.

G.G.M.


Barcellona, febbraio 1970




[Ardesia | 90]

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