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[domenica 04 maggio 2008]
I Ragazzi della Rosa Bianca
Ho sempre trovato vergognoso che si potessero includere parole come "italia", "nazione", "popolo", "tricolore", ecc..., all'interno dei nomi dei partiti politici. Al giorno d'oggi la scelta del nome di un partito altro non è che una mera operazione di marketig, quindi non mi sembra corretto utilizzare parole/significati che un popolo dovrebbero unirlo per identificare una singola fazione.
In alcuni casi poi si raggiunge il colmo: quando ho sentito che un partito era stato battezzato "La rosa bianca" non volevo crederci. Mi auguro davvero che si trattasse di una sorta d'omaggio, ma se anche così fosse, come si può anche solamente sentirsi degni di appropriarsi di un nome del genere? Per fortuna poi lo hanno modificato e magari a qualcuno questa vicenda ha fatto conoscere quella dei ragazzi della vera rosa bianca. Lo spero.
Uno dei capitoli del libro di Enzo Biagi che sto leggendo al momento, e del quale ho riportato l'introduzione nel post precedente, è proprio dedicato alla storia di Hans, di Sophie e dei loro amici, quindi mi sembra doveroso trascriverlo.
Inoltre ribadisco che Crepuscolo degli dei meriterebbe di essere ristampato.


I RAGAZZI DELLA "ROSA BIANCA"


Conosco, a Monaco, il ristorante Lombardi. Il padrone è italiano: su una parete, infatti, hanno dipinto il Vesuvio. Forse a quel tavolo d'angolo, vicino al caminetto, sedevano Hans Scholl e i suoi amici.
Fimavano la pipa, bevevano Chianti, discutevano, qualcuno cantava.
Conosco Inge Scholl: dirige a Ulm l'Università popolare, è sposata ed ha quattro figli. Veste sempre di scuro, porta gli occhiali, parla sottovoce, con molta dolcezza. Suo fratello Hans è stato decapitato per ordine del Führer, e così sua sorella Sophie; Werner, il più piccolo, è disperso in Russia.
Conosco diversi giovani che hanno poco più di vent'anni: ragazzi e ragazze. Li ho incontrati a Francoforte, o a Stoccarda, o a Düsseldorf. Ho domandato a tutti: "Che ne pensate di Hitler?" Molti mi hanno risposto: "Ha fatto del bene e del male". Così: "Del bene e del male".
Ho sul tavolo alcune fotografie: quensto è Hans Scholl, in divisa della Wehrmacht, nel 1942. È alla stazione e conversa con dei camerati. Fra poco salirà sul treno che lo condurrà al fronte. Sophie si è arrampicata ai cancelli, e ha in mano un garofano: è una ragazza bruna, dai capelli sconvolti; sul fondo si vedono alcune vecchiette che forse chiaccherano della margarina che scarseggia, o delle necrologie dei giornali che ogni giorno si allungano.
Il generale von Brauchitsch rispose, a chi lo accusava: "Perché dovevo essere io l'unico uomo sulla terra capace di ribellarsi a Hitler?" Hans Scholl, questo soldato dal profilo delicato, dall'aria raccolta, Sophie, questa signorinetta che si aggiusta un fiore sulla maglia, seppero dire di no.
Vorrei raccontare la loro storia.
Hans Scholl studiava medicina; gli piacevano le gite in montagna, suonava la chitarra, attaccava ai muri della sua stanza riproduzioni di Gauguin e di Van Gogh, leggeva i poeti. Era stato, naturalmente, nella "Hitlerjugend": le bandiere al vento entusiasmavano gli adolescenti, li eccitava il rullo dei tamburi, e l'idea di una Germania che il Führer voleva grande e potente. La Germania, per Hans Scholl, era, però, qualcosa di preciso; era i fiumi e i campi della Baviera, le foreste nella cui ombra si rifugiano i caprioli, le miniere e le fabbriche, l'odore di mele che, a settembre, si diffonde ovunque. Era patria anche Bach, e anche il proibito Mendelssohn, e Goethe e anche il proibito Heine, e anche i libri mandati al rogo, e i quadri relegati in soffitta. Perché il ragazzo delle "Hitlerjugend" non era sfoggito alla sua crisi: piano piano si era convinto che il padre, un vecchio liberale, non aveva poi tutti i torti.
Cominciarono a impedirgli di intonare quei canti popolari di ogni paese che aveva raccolti con passione, vietarono il labaro che aveva disegnato per il suo reparto: tutti uguali gli iscritti, tutti uguali i distintivi. Poi vide un plotone di SA sfilare ordinato per andare a sputare sulla faccia distrutta di un professore che non aveva aderito al partito, non aveva fatto altro che rifiutare una tessera. Poi lesse, ciclostilata, la lettera che von Galen, il vescovo di Münster, aveva indirizzato ai fedeli per denunziare la violenza nazista: "Noi non siamo il martello," diseva monsignor von Galen, "ma l'incudine, ed altri battono su di noi". Conobbe anche il professor Huber che ai suoi allievi spiegava, in un mondo pagano, le prove che la ragione di Leibniz offriva alle coscienze dell'esistenza di Dio.
Poi fu testimone di avventure crudeli. In una città della Polonia vide un gruppo di donne che sbrigavano pesanti lavori; portavano una stella gialla sul petto. Scese dal finestrino e si avvicinò ad una ragazza: era d'aspetto fragile, aveva un volto gentile, le si leggeva negli occhi lo sconforto, era affamata. Hans le offrì la sua razione, del cioccolato, delle noci. La ragazza lo guardò gelida e respinse il pacchetto. Allora Hans raccolse una margherita e si inchinò: "Avrei tanto voluto darvi una piccola gioia," disse. Il treno ripartì. E Hans fu contento perché la ragazza si era infilata la margherita fra i capelli, e sorrideva.
Seppe dalla madre la storia dei bambini malati di mente. Le suore della "Schwabiger Hall" frequntavano la sua famiglia, erano piccole suore caritatevoli che raccoglievano fanciulli senza speranza. Una mattina arrivarono le SS: si sentirono sulla strada stridere i freni di un lungo convoglio, una lunga fila di autocarri neri: "Andiamo, venite con noi," dicevano le SS, e i bambini si misero in fila con i loro grembiulini azzurri puliti, ridevano scioccamente, ridevano felici. Li portarono alle camere a gas.
"Perché non tornano?" chiedevano allora alle piccole suore caritatevoli i piccoli rimasti. "Ma dove vanno tutte queste grandi automobili?"
"Vanno in cielo," dicevano le suorine.
Allora, quando arrivarono di nuovo le SS, i bambini correvano incontro ai soldati, si mettevano in fila senza fare arrabbiare, ridevano scioccamente, felici, e salivano sulle grandi automobili nere cantando.
E seppe ancora di quel padre che era tornato con un breve permesso dall'Est, per correre dalle suore della "Schwabiger Hall", a vedere il suo bimbo che credeva guarito, e non lo aveva più trovato.
E di quella madre che, dopo un bombardamento, camminava tra le macerie e la polvere, portando tutto quel che le era rimasto in una valigia: un suo figlioletto da deporre al cimitero, camminava fiera e severa con quella strana valigia. COsì decise che bisognava fare qualcosa per salvare la propria anima, per illuminare le anime degli altri. Trovò. all'università, fra i suoi compagni, qualcuno disposto a battersi con lui: Christoph Probs, ad esempio, uno strano giovanotto che si occupava anche di astrologia e studiava le piante e le pietre curiose del suo paese, Willi Graf, un teologo, e lo stesso professor Huber, che aveva i capelli bianchi, e un grande senso della responsabilità morale che gli era imposta dalla cattedra. E infine Sophie, la studentessa in filosofia Sophie Scholl, una signorinetta allegra, che era lieta di seguire il fratello nella scoperta del mondo. Erano gli anni dei film francesi di Renoir o di Duvivier, i film ch eesprimevano il disgusto per una certa vita; c'era da scoprire la pittura moderna: Kandinsky e Klee, che cosa volevano dire?, e anche nelle opere dei classici si trovavano parole che illuminavano di una luce vera la grande tragedia.
Cominciarono a compilare messaggi di rivolta, che firmavano con un nome romantico: "La rosa bianca", a stamparli in uno stanzone abbandonato da un artista richiamato alle armi, a distribuirli nelle cassette della posta, nei corridoi, nelle aule universitarie. Il 18 febbraio 1943 Hans Scholl e sua sorella Sophie vennero arrestati, e con loro Christoph Probst. Hans aveva venticinque anni, ventiquattro Probst, venti Sophie. Per lunghe ore furono interrogati; la Gestapo parlava loro dell'onore tedesco, della ineluttabile vittoria del nazismo, della sua forza politica. Cercavano una conversazione, ma volevano soprattutto dei nomi. Non li ebbero. Capivano, i tre ragazzi, che erano soli, e che nulla avrebbe potuto più salvarli. "Che bel giorno," disse Sophie ad una compagna di cella, "che sole magnifico, e io debbo morire." E Hans si arrampicò per poter vedere, dalla finestra della prigione, la luce della primavera che avanzava.
Sophie continuò a sorridere, non si smarrì. Chiese all'avocato che doveva difenderla se ad Hans sarebbe stata concessa la fucilazione: "Ha combattuto al fronte," disse. Poi domandò se per lei ci sarebbe stata la forca o la ghigliottina; il difensore era smarrito, tacque.
Hans, raccontò poi qualcuno che gli fu vicino nelle ultime ore, sembrava perfino allegro; ma ogni tanto chiedeva di essere lasciato solo, solo con i suoi pensieri.
Venne il giorno del processo. I giudici indossavano toghe rosse, il presidente Freisler urlava le sue domande. "Quello che noi abbiamo scritto," disse Sophie, "molti lo pensano, ma non osano dirlo".
Ci sono, nell'aula, anche i signori Scholl, avvertiti da un ignoto studente, e c'è Werner, arrivato in licenza dalla Russia. I signori Scholl sono appena giunti in tempo per ascoltare il presidente Freisler che legge la condanna a morte. Werner va a salutare i fratelli e Christoph. Hans gli dice sottovoce: "Mantieniti forte. Nessuna concessione". Probst chiede che gli sia concessa la vita, per i suoi tre bambini, e Hans vuole ancora scagionarlo, ma il presidente delle toghe rosse gli toglie la parola. Allora Christoph Probst, nel carcere di Stradelheim, in attesa che tutto si compia, chiede un prete cattolico perché vuole essere battezzato. Lo avevano educato senza religione, ma nell'ora del congedo domanda di essere liberato da ogni peccato: "Se non sbaglio, " scrive alla madre, "questo è il solo modo per andare da Dio".
Ai signori Scholl viene concesso di stare accanto ai loro ragazzi in attesa che il boia concluda. Prima apparve Hans, dietro le sbarre, più magro, quasi sottile, trasfigurato. Strinse la mano a tutti e disse: "Non sento odio, tutto ciò che mi circonda è lontano, lontano da me". Li pregò di ricordarlo agli amici, e quando disse l'ultimo nome non seppe trattenere una lacrima; si curvò per nasconderla. Si allontanò assorto, ed era ormai davvero lontano.
Poi una guardia accompagnò Sophie: camminava adagio, diritta, non mostrava alcuna emozione. Accettò dalla madre i cioccolatini che Hans non aveva voluti. "Non avevo ancora mangiato," disse, e la madre le mormorò per consolarla: "Cara, pensa a Gesù".
"Sì," rispose Sophie, "ma anche a te."
E se ne andò.
Tutti e tre fumarono insieme l'ultima sigaretta. probst disse: "Non credevo fosse tanto facile morire, tra qualche minuto saremo nella vita eterna.". Hans gridò: "Viva la libertà". Sophie fu condotta sul palco per prima, non disse nulla, camminava adagio, calma, diritta.
Era il 22 febbraio 1943.
Sono passati molti anni. Il signor Scholl, che vive a Monaco, è ancora più vecchio e più solo, perché anche la moglie se ne è andata. Inge Scholl lavora, ha un ufficio, deve fare tutto in fretta, perché quattro figli sono tanti, e bisogna approfittare anche di quel momento in cui dormono. Dice: "Crescono sereni, non possono nemmeno immaginare che si potesse andare in galera per aver ceduto, sul tram, il posto a un ebreo malato. Non sanno nulla di quell'altro mondo, dell'altro mondo".
Non possono nemmeno immaginare che Hitler abbia fatto del male, soltanto del male.


Tratto da Crepuscolo degli dei di Enzo Biagi (1961)



[Ardesia | 242]

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